«Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia»
In queste parole della scrittrice Natalia Ginzsburg (1993) sono racchiusi concetti importanti dei meccanismi attraverso i quali noi “siamo quel che siamo”. Come afferma Josef LeDoux (202), noi siamo il prodotto della nostra memoria; siamo tutto ciò che abbiamo imparato, siamo il risultato dell’esperienza e della organizzazione delle informazioni che abbiamo ricevuto soprattutto nell’infanzia.
E’ nell’infanzia, infatti, che si comincia a definire la nostra personalità. In questo concetto di personalità è incluso tutto uno stile di risposte organizzate che ci permettono di relazionarci con l’ambiente. Va da sé che se tutto ciò si organizza nell’infanzia, il palcoscenico in cui questo avviene è rappresentato dalla famiglia.
Il modo in cui siamo stati accuditi, in cui siamo stati stimolati cognitivamente e ci sono stati trasmessi codici morali, si realizza all’interno del sistema familiare. Molteplici sono gli studi scientifici che hanno tentato di organizzare e spiegare come le dinamiche familiari agiscano sul singolo individuo, determinandone la personalità. Il modello che attualmente meglio si presta a queste spiegazioni è la teoria dell’attaccamento postulata da Joan Bowlby (1999).
Per Bowlby (1999) le modalità con cui la madre si relaziona con il bambino definisce la sicurezza percepita e lo stato di benessere di quest’ultimo. Sentirsi al sicuro permette di disattivare tutti i sistemi difensivi e di allerta al pericolo e crea una omeostasi biologica che genera benessere. Lo stato di benessere, a sua volta, permette all’individuo di aprirsi al gioco, alle relazioni, all’esplorazione del mondo. Quando una madre è capace di intercettare i bisogni del bambino (ad esempio il disagio di sentirsi sporco) e interviene nel sollevarlo da quello stato di malessere, ristabilisce una omeostasi e permette al bambino di organizzare quelli che Bowlby (1999) ha definito “Modelli Operativi Interni” (MOI), che dicono al bambino alcune cose su di sé. Se il bambino è stato amato, il MOI si strutturerà nel senso di: “io sono amabile, posso essere amato”, e questa percezione di sé stesso condizionerà il suo smodo di relazionarsi ed adattarsi alla realtà.
Da un punto di vista neurobiologico tutte queste esperienze positive con il caregiver fanno si che si strutturino circuiti neuronali autonomici di risposta a situazioni ambientali.
“Tutte le nostre esperienze possono contribuire a plasmare le strutture del nostro cervello, provocando l’attivazione di determinati circuiti, consolidando collegamenti preesistenti e inducendo la creazione di nuove sinapsi.” Daniel Siegel (2001)
Quante volte rispondiamo a delle situazioni in modo automatico, in un determinato modo, senza saperne il perché? Lo abbiamo imparato nelle nostre esperienze infantili. Nell’infanzia, infatti, la memoria è prevalentemente procedurale: impariamo nell’esperire senza concettualizzare ciò che stiamo facendo. Immaginiamo tutte le abitudini della famiglia che assorbiamo senza critica. L’abitudine di prendere un caffè o un tè la mattina è determinata dalle miriadi di volte che in famiglia ho fatto colazione con l’uno o l’altro. E quella abitudine, a meno di meccanismi psicologi di opposizione, facilmente verrà riprodotta nella famiglia che si formerà in futuro.
“una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte” Attraverso questa ripetizione, basata su una memoria procedurale, assorbiamo tutto ciò che per la nostra famiglia è importante. Impariamo a valorizzare alcune cose e ad avere paura di altre.
Il codice famigliare ci fornisce uno strumento con il quale codifichiamo il mondo. Ci informa su quali sono i valori, cosa è giusto e cosa è sbagliato, le abitudini, cosa dobbiamo temere e quali atteggiamenti dobbiamo tenere nei confronti del mondo.
Ma come avviene questa trasmissione? Un meccanismo lo abbiamo già individuato: quello della esposizione, il “veder fare”. L’altro, maggiormente esplicito, è quello dell’educazione, all’interno della quale vengono espresse verbalmente ed esplicitamente le informazioni che ogni famiglia desidera siano trasmesse ai propri figli. Il genitore tende a riprodurre nel suo modo di educare ciò che ha appreso nella famiglia di origine. Questa continuità presenta aspetti positivi, ma porta con sé anche tanta complessità e aspetti negativi. Ricordo un papà che, in una consulenza psicologica per problemi con il proprio figlio, affermava: “io a mio figlio, differentemente da mio padre, non ho alzato mai le mani”. Ciononostante il figlio aveva paura di lui: la forma era cambiata, ma la sostanza era invariata. Questo per dire che alcuni modelli transgenerazionali, per poter essere scardinati, richiedono un lavoro molto approfondito che preveda consapevolezza e rielaborazioni di vissuti e di meccanismi procedurali. L’identità femminile – e tutto ciò che può ricadere su questo concetto – passa anch’essa per le forche caudine dei meccanismi transgenerazionali.
La bambina comincia ad assorbire sin dalla nascita qualcosa sulla sua identità femminile, soprattutto identificandosi con il modello femminile a sua disposizione, che molto spesso è rappresentato dalla madre. La figlia impara l’essenza femminile da una parte attraverso tutto ciò che le viene esplicitamente detto (“le bambine devono comportarsi così”); dall’altra attraverso quello che vede: come la mamma si comporta e come è trattata dal papà, dal nonno, dagli zii e soprattutto dalla nonna. Ciò vale a rinsaldare un concetto: sebbene nella famiglia si affermi, ad esempio, che le donne sono intelligenti, se la mamma è trattata come una che non può capire, l’informazione che determinerà maggiormente una identificazione e conseguente comportamento sarà “le donne non possono capire”. Ancora, se in famiglia si afferma che le donne hanno un ruolo importante, ma la bambina vede che le decisioni le prende solo il papà, questo modus operandi inficerà necessariamente il suo concetto di importanza delle donne, creando una identificazione non lineare tra quello che si dice e quello che fa. Questo meccanismo, c.d. “falso sé femminile”, è figlio dell’età moderna, della civilizzazione. Nelle realtà contadine, ad esempio, ciò che si pensava della donna corrispondeva esattamente al comportamento che la donna doveva assumere: non vi erano incongruenze, tutto era coerente.
“Questa identificazione femminile, un tempo così semplice per le nostre nonne e bisnonne, dove il femminile ed il maschile erano fortemente caratterizzati, attualmente ha perso dei tratti ben definiti.” Spiridigliozzi 2020
Come detto, tutto ciò che abbiamo appreso in famiglia lo ripetiamo se non diventiamo consapevoli dei meccanismi che ci muovono e non rielaboriamo in modo critico le nostre esperienze. Le donne possono trasmettere alle proprie figlie meccanismi che certamente non renderanno la loro vita facile. Un fatto di cronaca ci riporta drammaticamente a questi meccanismi: gli episodi accaduti a Saman Abbas, una ragazza pakistana che voleva disporre della sua vita diversamente da come la sua famiglia aveva pensato per lei. In questa vicenda la cultura Pakistana ha inciso in modo significativo nel determinare il modo in cui la famiglia si è mossa, violando persino la legalità. In particolare, occorre evidenziare le azioni della madre, la quale è divenuta carnefice della propria figlia e si è prodigata in tutti i modi affinché ella accettasse il suo destino, così come lo aveva accettato lei stessa. Una sorta di deficit di empatia verso la propria figlia, verso l’essere umano.
Questo, come accennato, in alcune culture è palese, totalmente accettato, e rinsalda i vincoli di appartenenza, fugando i pericoli della destabilizzazione sociale. Nella cultura occidentale è maggiormente attivo un doppio binario, una emancipazione – che potremmo definire “intellettuale” – che si blocca nella realizzazione pratica. Le giovani donne – come già affermato nell’articolo “Adolescenti in cerca dell’identità femminile” – sono le più inclini a notare e a cercare di evidenziare alla famiglia le incongruenze del proprio nucleo nel trattare il femminile, a causa dell’opposizione adolescenziale o dell’esposizione a una maggior informazione pluralista. La storia di una ragazza in trattamento presso di me racconta tutto questo con una efficacia ed una semplicità che merita di essere condivisa.
Giovanna, portata in consultazione psicologica per un problema di ansia, nel suo percorso terapeutico diventa così consapevole di tali meccanismi da svelare a sé stessa, alla sorella ed anche a me quanto tutto ciò che viveva nei modelli famigliari fosse palesemente “falso”. In particolare, dopo aver faticato non poco a convincere la famiglia, Giovanna aveva ottenuto la possibilità di partire per un semestre di interscambio in America; a ridosso della partenza, tuttavia, era stata invasa da una crisi di ansia che le aveva inibito qualunque azione: era bloccata. In quel periodo, la terapia di Giovanna aveva consistito solo di cinque incontri, nei quali – per dirlo con una metafora – “si disattiva il suo sistema di allarme”, in modo che lei potesse partire serena e fiduciosa di aprirsi ad una nuova esperienza. Tale sistema di allarme inviava segnali di pericolo perché – come abbiamo potuto riscontrare in quegli incontri – la sua paura era quella di lasciar sola la sorella a sostenere il peso dei genitori. Sebbene possa sembrare paradossale che Giovanna e la sorella si occupassero dei genitori, ciò avviene, purtroppo, frequentemente e viene chiamato in clinica “inversione di ruolo”: far da genitore al genitore. E’ un lavoro estenuante per i ragazzi, in quanto non hanno strumenti e, viceversa, avrebbero bisogno di essere essi stessi sostenuti. Giovanna si preoccupava del peso che lasciava alla sorella, consapevole di quanta fatica comportava mantenere un equilibrio in famiglia.
Ma cosa succedeva in quella famiglia? Il padre di Giovanna era un militare che ha unito alla rigidità della vita militare tutta una serie di convinzioni sul genere femminile che provengono dalla sua cultura meridionale. La mamma, una signora dedita al lavoro ed alla religione, sembrava essere totalmente succube del marito. Giovanna e sua sorella si alternavano a scudo della madre, proteggendola dalle angherie del padre, che ella stessa accetta come normali. Giovanna, alla fine, è riuscita a partire, perché in quelle poche sedute avevamo ristabilito il concetto per cui i genitori sono degli adulti e quindi sarebbero stati in grado in grado di occuparsi di sé stessi e della sorella. Ho poi rivisto Giovanna esattamente un anno dopo, al ritorno in Italia. Nella sua telefonata “ ho bisogno di aiuto il mondo mi si è rovesciato”. L’esperienza che aveva fatto e soprattutto l’aver vissuto nella host family l’avevano portata a non sentirsi più a casa nella sua casa.
“Era meglio prima! Prima non vedevo, avevo un malessere fastidioso ma non sapevo perché, mentre ora quel malessere ha un preciso nome ed è insopportabile”. Giovanna non riesce più a trovare “normale” il modo di fare della sua famiglia dopo aver sperimentato un modo di vivere diverso e soprattutto un dissimile modo di trattare le donne. “Un giorno, mentre mi trovavo con la famiglia che mi ospitava, sono tornata da scuola con la host sister e un po’ dopo è rientrata anche la madre” – mi racconta – “Ci siamo messe a raccontarci cose, a ridere, scherzare e si stava facendo tardi. La cena non era pronta e nulla era a posto. Ho poi sentito il rumore della chiave nella porta: il papà stava rientrando. Il mio cuore ha avuto un momento di sospensione, ero in attesa di reazioni brutte; invece, lui è entrato e con un grande sorriso ci ha salutato. Dopo un piccolo scambio con la moglie, ci ha detto di continuare a rilassarci e che avrebbe preparato lui la cena.”
Giovanna ha capito che lei, la madre e la sorella hanno paura del padre e hanno una radicata convinzione che lui abbia una importanza nella famiglia maggiore della loro semplicemente perché è maschio, o perlomeno ne era convinta fino a quando non è rientrata in Italia. A quel punto, la cosa le è divenuta insopportabile. E’ insopportabile che una sola persona possa condizionare la vita di un intero nucleo, insopportabile che ciò che lui pensa sia più importante di quello che pensano le altre persone della medesima famiglia e assolutamente insopportabile che sua madre non si accorga di tutto questo. Infatti, le sole parole che le sa dire sono: “Adesso arriva tuo padre, sai che si innervosisce! Dagli ragione e non lo disturbare.” Nella sua famiglia, il padre – quindi il maschio – ha diritto di essere nervoso, di manifestarlo e di pretendere di essere regolato nell’umore. Nella famiglia in cui è stata ospitata, invece, padre e madre collaborano, nessuno dei due ha il diritto di manifestare il proprio malumore pesando sull’altro ed entrambi sono tenuti a regolarsi per creare un buon clima per i figli.
Giovanna cominciò a notare tutto quello che non andava nella propria famiglia, non solo per la spigolosità dei soggetti, ma soprattutto per questa divisione di ruoli così evidente, così depauperante per il femminile e non palesemente conclamata. Un episodio in particolare le suscitò molta irritazione nei confronti della madre: mentre quest’ultima si stava lamentando dei soldi che mancavano e di come loro tutte avrebbero dovuto ridimensionare le loro necessità, a Giovanna venne in mente la grandiosa macchina del padre nel garage, affiancata dalla lussuosa moto. Trovò disdicevole che a sua madre non si palesasse minimamente l’idea che mantenere quei costosi mezzi di trasporto potesse incidere sul bilancio famigliare. Insomma, si ripropose nuovamente il concetto che le esigenze del padre fossero più importanti di quelle di ogni altro membro della famiglia.
Potrei riferire numerosi altri esempi riportati da Giovanna delle innumerevoli volte in cui in famiglia ”il siamo tutti uguali” si coniugava in terza persona singolare maschile, ma giungo alla conclusione e mi riaggancio a ciò che più rilevante in questa sede: il transgenerazionale. Un giorno Giovanna tornò al paese di origine dei suoi genitori e sentì la madre, le cugine e le zie criticare quello che avevano fatto le proprie madri. Si incensavano e si esaltavano, affermando quanto loro si fossero emancipate ed avessero rivoluzionato tutto il modo di vivere della donna all’interno di questa voluminosa famiglia. In quel momento Giovanna avvertì un profondo sconforto che la portò a scrivere: “Mentre la mamma raccontava della sua esperienza in famiglia e di come lei e le sue sorelle erano diventate oggi, io cominciai a sentire il cuore che batteva forte, sentivo ansia… ma perché? Dopo un bel respiro, mi fu chiaro che era perché anche io facevo parte di quella storia insieme a mia sorella, e soprattutto compresi che nulla era cambiato in tre generazioni. Tutto veniva ripetuto, gli stessi errori, le stesse sventure e sfortune. Tutto sembrava cambiato, ma in realtà non era cambiato nulla”.
In realtà, Giovanna, grazie alla sua consapevolezza, è stata capace di modificare molte cose all’interno della sua famiglia e soprattutto ha modificato il suo rapporto con il padre, il quale fatica a sostenere le argomentazione e la logica con cui Giovanna smonta sistematicamente tutte le assurde convinzioni che lui sostiene. Tuttavia, la madre, ancora oggi, la guarda e rimane perplessa, quasi a non capire perché a quella figlia tanto amata piaccia portare tanto scompiglio.
T. Berry Brazelton, un pediatra americano, ha ripreso attraverso un filmato delle madri che allattavano le loro bimbe, ognuna con il proprio stile; vent’anni dopo, ha ripreso la modalità con cui le stesse bimbe, a loro volta divenute madri, allattavano i propri bimbi. Sorprendentemente, lo schema con cui erano state allattate veniva ripetuto senza che ne avessero memoria. Allora, cosa ci salva dal meccanismo transgenerazionale tanto valido quando porta continuità, sapere e benessere, ma tanto pericoloso in quella che per prima la psicanalista polacca Miller chiamò pedagogia nera? Indicando con tale termine il trasferire, attraverso l’educazione tutte le frustrazioni, i limiti culturali e le problematiche non risolte del genitore sul figlio/a.
La scuola e tutte le agenzie educative, sollecitando e promuovendo un pensiero critico, possono rappresentare l’elemento al di fuori della famiglia – e quindi del contesto culturale di appartenenza – che permetta lo sviluppo della consapevolezza. In situazioni di estrema patologia, come nel caso citato di Saman, la scuola è l’agenzia che rileva che “l’argine è straripato”. Quando la patologia supera quel che si può tollerare, la scuola è chiamata ad allertare i servizi sociali i quali, come extrema ratio, possono anche allontanare i bimbi dal contesto famigliare; la scuola rappresenta, insomma, una rete sul territorio che faccia sì che ogni bambino o bambina sia sempre al sicuro e protetto nonostante la propria famiglia. Protetto anche dagli stereotipi trasmessi a livello transgenerazionale sulle differenze di genere.
Bibliografia
BOWLBY J., Attaccamento e perdita Bollati Boringhieri Editori, Torino 1999
BRAZELTON T. BERRY CRAMER BERTRAND G., Il primo legame Edizioni Frassinelli Collana Saggi 1991
GINZUBURG N., Lessico famigliare Enaudi Editore 1993
HILL D., Teoria della regolazione affettiva Raffaello Cortina Editore 2021
KANDEL E.R., Principi di neuroscienze Casa Editrice Ambrosiana Roma 2015
LEDOUX J., Il sé sinaptico Raffaello Cortina Editore 2002
LEDOUX J., Il cervello emotivo Baldini Castelli srl Milano 2015
MILLER A., Riprendersi la vita Bollati Boringhieri Editori Torino 2009
SIEGEL J.D., La mente relazionale Raffaello Cortina Editore 2001
SPIRIDIGLIOZZI S., Cognitività dell’età evolutiva Universitalia Editore 2020
SPIRIDIGLIOZZI S., Adolescenti orfane dell’identità femminile in Mosaic Femminismi e femminismi Paolo Loffredo Editore pp. 142 150 2019
Prof.ssa Simona Spiridigliozzi
Psicologa, Psicoterapeuta
Professore a contratto Università di Tor Vergata