“Dare voce” alla sofferenza di avere un figlio con una grave malattia

“Dà voce alla sofferenza il dolore che non parla imprigiona il cuore agitato e lo fa schiantare”
W. Shakespeare

Far fronte alla diagnosi di grave malattia o disabilità di un figlio non è facile per la maggior parte dei genitori, i quali, dal momento in cui viene comunicata loro la diagnosi, possono avere reazioni di shock, smarrimento e intenso dolore.
Nell’ambito degli studiosi che si occupano di teoria dell’attaccamento Marvin e Pianta (1996) hanno ipotizzato che tale esperienza mette i genitori di fronte al compito di affrontare ed elaborare una perdita, quella del bambino “sano” che lascia il posto al bambino “malato/che ha bisogno di cure”. I genitori sono chiamati ad affrontare un grosso cambiamento della propria realtà e di quella del loro bambino, in cui viene messa in crisi l’immagine che il genitore aveva del figlio come un bambino “sano” e sono chiamati a modificare la rappresentazione del proprio bambino, di sé stessi come genitori e della relazione con il piccolo. Questa esperienza è potenzialmente traumatica e richiede loro un grande sforzo di adattamento e accettazione della nuova situazione. Marvin e Pianta hanno definito con il termine “Risoluzione” dell’esperienza della diagnosi del figlio, il processo di elaborazione di questa esperienza, paragonandola al processo di elaborazione di lutti e traumi. Come nelle situazioni di lutto, anche per i genitori di figli gravemente malati si possono rintracciare una serie di reazioni comportamentali, o “fasi” che fanno parte del processo di elaborazione (Bowlby & Parkes, 1970; Bowlby, 1980).

La prima fase è caratterizzata da un vero e proprio momento di stordimento e confusione, in cui i genitori possono avere difficoltà a comprendere cosa stia succedendo e vivere un forte senso di impotenza. La seconda fase è caratterizzata dalla negazione della diagnosi del figlio, che può portare il genitore a richiedere molti consulti medici al fine di ricevere una diversa versione della diagnosi o della prognosi fino ad una vera e propria disconferma della stessa. Durante la terza fase i genitori attraversano un momento di forte rabbia, nei confronti dei medici, del partner o addirittura del bambino. Ormai non negano più la malattia del bambino, ma possono esperire sentimenti di colpa, sentendo di essere la causa della malattia del figlio, oppure vergogna per quanto è accaduto al piccolo e alla propria famiglia. A questi sentimenti si avvicendano sensazioni di inadeguatezza e impotenza che impediscono ai genitori di prendersi cura del proprio bambino in maniera adeguata. Infine, la quarta fase è caratterizzata dall’accettazione della diagnosi del figlio, che consente ai genitori di adattarsi alla nuova realtà e a riuscire a mettere in campo le proprie risorse. I genitori che accedono a quest’ultima fase spesso riescono ad elaborare un nuovo progetto di vita, che tenga conto dei limiti e delle possibilità che tale situazione comporta per sé stessi, per il bambino e per la propria famiglia.

I genitori che sono in grado di accettare questa esperienza sono definiti da Pianta e Marvin “risolti”. Questi caregiver sono riusciti ad andare oltre una prima reazione di dolore, il quale viene riconosciuto e accettato. Nel tempo i sentimenti negativi legati a questa esperienza assumono una minore intensità, lasciando spazio a sentimenti maggiormente tollerabili, come amore, accettazione, empatia, o compassione. Il lavoro di accettazione ha infatti una componente cognitiva, in cui il genitore deve accettare la realtà senza distorcerla, e una componente emotiva in cui il genitore riconosce e regola i sentimenti relativi alla notizia di avere un bambino affetto da una grave patologia (Zavattini, 2016).

Questi caregiver saranno in grado di creare una rappresentazione bilanciata e il più possibile realistica di quanto è accaduto, saranno maggiormente in grado di prendersi cura dei loro bambini in quanto capaci di riconoscere i loro punti di forza e di fragilità, di sostenerli laddove ne hanno maggiormente bisogno e di offrire loro un caregiving sensibile ai segnali del bambino. Molti di questi genitori stabiliscono con i propri figli delle relazioni di amore e fiducia, e i loro bambini nel tempo creano dei modelli di attaccamento sicuri. Sono genitori che riescono ad offrire ai propri figli un’esperienza in cui sono disponibili in caso di bisogno, in grado di consolarli e di comprendere i loro segnali.

Tuttavia, non sempre i genitori sono in gado di elaborare tale esperienza dolorosa. Alcuni di questi caregiver possono rimanere bloccati nel dolore e non sentirsi in grado di prendersi cura del loro bambino con bisogni speciali. Alcuni di loro rimangono arrabbiati oppure minimizzano la diagnosi e gli effetti che questa può avere sulle loro vite, con la conseguenza di non essere in grado di far fronte ai bisogni emotivi e concreti dei loro figli. In questi casi i bambini vivranno delle esperienze di accudimento poco sensibili e amorevoli, risultando a rischio di sviluppare un attaccamento di tipo insicuro e/o una incapacità di regolare le proprie emozioni. Alcuni genitori possono risultare iperprotettivi o addirittura intrusivi, altri indifferenti e sprezzanti.

I genitori che non sono in grado di accettare la diagnosi dei loro bambini possono mostrare segni di disorganizzazione del pensiero e del comportamento, mettere in campo comportamenti spaventanti o mostrarsi spaventati quando si prendono cura dei loro bambini. Gli studiosi dell’attaccamento hanno ampiamente dimostrato che genitori spaventati e/o spaventanti non sono in grado di fornire al bambino un’esperienza affettiva prevedibile e tollerabile, esponendolo a intensa paura alternata a momenti di maggiore sicurezza e conforto. Il bambino potrebbe, dunque, vivere un forte senso di disorientamento, e non riuscire ad elaborare e integrare le proprie esperienze affettive nella coscienza, che potrà presentarsi frammentata e non integrata. Numerosi studi hanno approfondito il ruolo di eventi traumatici e fortemente stressanti nell’influenzare negativamente la capacità di regolazione emotiva genitoriale e la capacità di caregiving. Sembra che non solo un comportamento francamente spaventato/spaventante del genitore, ma anche una difficoltà dello stesso ad aiutare il bambino a regolare i propri stati affettivi negativi, associata ad una vulnerabilità del piccolo, possano avere un effetto negativo sulla neurobiologia del feto e del bambino. In altre parole il genitore, che dovrebbe essere fonte di conforto e sicurezza, potrebbe mettere in campo un comportamento di caregiving discordante, contraddittorio e conflittuale, contribuendo significativamente all’insorgenza di una marcata disregolazione emotiva nel figlio e condurre alle prime forme di vulnerabilità psicobiologica allo stress.

Una recente rassegna della letteratura (Sher-Censor & Shahar-Lahav, 2022) sugli studi che hanno indagato la reazione genitoriale a diverse diagnosi, ha evidenziato che la percentuale di genitori che non avevano elaborato l’esperienza della diagnosi di malattia dei figli varia dal 18,43% al 72,49%. Le cause che sottendono tale variabilità non sono state ancora del tutto chiarite, ma il dialogo tra psicoanalisi e neuroscienze può essere utile per comprendere i meccanismi sottesi l’elaborazione del lutto. Secondo la psicoanalisi il soggetto che affronta un lutto dovrà disinvestire (la propria libido, scriveva S. Freud) dall’oggetto o dalla rappresentazione che ha perso, ovvero che non ha più una corrispondenza nella realtà. A questo proposito Freud scrive:
“Orbene, in che cosa consiste il lavoro svolto dal lutto? Non credo di forzare le cose se lo descrivo nel modo seguente: l’esame di realtà ha dimostrato che l’oggetto amato non c’è più e comincia ad esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso a tale oggetto. Contro tale richiesta si leva un’avversione ben comprensibile; si può infatti osservare invariabilmente che gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica, neppure quando dispongono già di un sostituto che li inviti a farlo. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una ostinata adesione all’oggetto, consentita dall’instaurarsi di una psicosi allucinatoria di desiderio. La normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento. Tuttavia questo compito non può esser realizzato immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco per volta e con grande dispendio di tempo e di energia d’investimento; nel frattempo l’esistenza dell’oggetto perduto viene psichicamente prolungata. Tutti i ricordi e le aspettative con riferimento ai quali la libido era legata all’oggetto vengono evocati e sovrainvestiti uno ad uno, e il distacco della libido si effettua in relazione a ciascuno di essi. Non è affatto facile indicare con argomentazioni di tipo economico perché tale compromesso con cui viene realizzato poco per volta il comando della realtà risulti così straordinariamente doloroso. Ed è degno di nota che questo dispiacere doloroso ci appaia assolutamente ovvio. Comunque, una volta portato a termine il lavoro del lutto, l’Io ridiventa in effetti libero e disinibito”. (Freud, 1989, p. 104)

Il lavoro psicoanalitico potrebbe in questo senso aiutare i genitori che hanno ricevuto una diagnosi di malattia di un figlio ad “elaborare” questa esperienza, ovvero a trasformare tale materiale psichico e aiutare il paziente ad investire in un nuovo oggetto significativo. Il lavoro terapeutico di elaborazione del lutto riguarda un’esperienza di condivisione, ascolto, sostegno in cui il paziente può riuscire ad accedere all’esperienza dolorosa, narrarla, trovando le parole per i propri pensieri e rendono le proprie emozioni tollerabili. Questo processo può aiutare i genitori a “dare voce” alla propria sofferenza e ad avere nuovamente fiducia nella possibilità creativa della riparazione.

Riferimenti bibliografici
Bowlby J. (1980). Attaccamento e perdita, vol. 3: La perdita della madre. Boringhieri, Torino, 1983.
Bowlby, J., Parkes, C.M. (1970). Separation and loss within the family. In: Anthony EJ, ed. The child in his family. New York: Wiley.
Marvin, R. S., & Pianta, R. C. (1996). Mothers’ reactions to their child’s diagnosis: Relations with security of attachment. Journal of Clinical Child Psychology, 25(4), 436–445. https://doi.org/10.1207/s15374424jccp2504_8
Sher-Censor, E., & Shahar-Lahav, R. (2022). Parents’ resolution of their child’s diagnosis: A scoping review. Attachment & Human Development, 1-25. https://doi.org/10.1080/14616734.2022.2034899
Zavattini G.C. (2016). La reazione dei genitori alla diagnosi dei figli. Psicologia Clinica dello sviluppo, XX, 3: 331-354. https://www.rivisteweb.it/doi/10.1449/85041

Viviana Guerriero
Psicologa, Psicoterapeuta
Dottore di ricerca
Dirigente psicologo Asl Roma 5

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